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ACQUE DI MEZZO

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Lo spazio per i grandi impianti idroelettrici è finito, ora si cerca di sfruttare i torrenti più piccoli. Spingendosi anche in luoghi inaccessibili e integri

Acque cristalline e abbondanti, che scorrono incuneate in una forra profonda. Questo è il Grisol, uno degli ultimi torrenti ancora liberi da derivazioni idroelettriche nelle Dolomiti bellunesi. Ma qui, come per altri piccoli corsi d’acqua di montagna, la minaccia è la costruzione di minicentrali, il cui impatto ambientale può risultare devastante. Ci troviamo a pochi km dalla diga del Vajont, a cinquant’anni dalla tragedia. Un triste anniversario che offre lo spunto per indagare su cos’è cambiato in questi anni nella produzione di energia idroelettrica in Italia.

Finito lo spazio per i grandi impianti, il tentativo è sfruttare i più piccoli salti d’acqua, spingendosi anche in luoghi inaccessibili e integri. Oggi le centrali fino a 1 MW sono il 75% degli impianti idroelettrici nelle Alpi, ma contribuiscono per meno del 5% della produzione. La convenienza è data dagli incentivi per le rinnovabili. «Va superata la logica del “piccolo è bello”, perché un intervento di dimensioni ridotte può rivelarsi più dannoso di un grande impianto ben gestito», sottolinea Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf). Ma se si moltiplicano le richieste di nuove derivazioni idroelettriche ad alta quota, allo stesso tempo nascono movimenti e comitati per la salvaguardia della montagna e dei suoi torrenti. Meno di un anno fa, per esempio, il comitato “Acqua bene comune” di Belluno ha incassato una storica vittoria in Cassazione contro la ditta Eva Valsabbia di Chicco Testa, che aveva ottenuto l’autorizzazione per una centrale sul Mis, nel Parco delle Dolomiti bellunesi. L’opera è stata dichiarata illegittima, ma restano altre 130 domande per 70 impianti nel solo bellunese. Ecco perché il comitato ha presentato una denuncia all’Ue per quelle che ritiene continue violazioni della direttiva Acque.

Non va meglio sull’altro versante dell’arco alpino. Quest’anno la Val d’Aosta ha guadagnato la bandiera nera della Carovana delle Alpi di Legambiente per il progetto di una minicentrale ai piedi del ghiacciaio del Monte Rosa, nell’incontaminata alpe di Cortlys. In provincia di Sondrio, invece, una situazione di sfruttamento estremo ha portato a una grande mobilitazione e alla costituzione dell’Intergruppo acque provincia di Sondrio (Iaps), con assemblee di cittadini nelle valli, la raccolta di 45.000 firme, l’adesione di tutti i Comuni e il coinvolgimento delle istituzioni: ministero, Regione e Provincia. Un percorso innovativo che è riuscito a bloccare una cinquantina di domande di nuovi impianti, portando allo sfruttamento degli acquedotti comunali per la produzione di energia.

«La scommessa è riuscire a conciliare l’obiettivo fissato dalla direttiva Acque, cioè il raggiungimento del “buono stato” per i fiumi entro il 2015, con la crescita delle rinnovabili, fra cui l’idroelettrico», afferma Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente. Oggi le energie pulite coprono il 28% del fabbisogno elettrico nazionale. La metà proviene da impianti idroelettrici, con un notevole risparmio di emissioni di CO2 e garantendo un’alternativa a carbone e petrolio. Sono più di 1.300 i comuni italiani in cui funziona almeno un impianto alimentato da questa fonte. «Ma questo non deve portare alla distruzione degli ecosistemi. Servono regole chiare: le Regioni devono stabilire delle linee guida, indicando dov’è possibile costruire nuove centrali e dove no, e come gestire i grandi impianti». Secondo il rapporto Comuni rinnovabili 2013 di Legambiente, la potenza totale installata dei piccoli impianti, quelli fino a 3 MW, è di 1.179 MW, una quantità in grado di coprire il fabbisogno di 1,8 milioni di famiglie. Esistono buone pratiche, che permettono di immaginare uno sviluppo rispettoso dell’ambiente. Canali, acquedotti e vecchi mulini possono essere utilizzati per produrre energia. «Bisogna fare attenzione però, perché nuove centrali in un sistema artificiale potrebbero rendere più difficile la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua – sostiene Goltara del Cirf – In altri paesi c’è una forte spinta a rimuovere gli ostacoli che impediscono il fluire delle acque. Se andiamo verso lo sfruttamento di canalizzazioni e salti artificiali, il rischio è che ci sia la scusa per congelare la struttura dei reticoli irrigui. E l’utilizzo degli acquedotti a fini idroelettrici non deve essere il pretesto per aumentare le derivazioni». Insomma, è cruciale che per ogni intervento su un corpo idrico ci sia una valutazione sul suo stato di salute. In base alla direttiva Acque, questo non deve peggiorare. «Quanto agli incentivi – precisa Edoardo Zanchini, che per Legambiente si occupa di energia – il nostro invito è copiare il modello tedesco, che premia la qualità degli interventi e ha elaborato sistemi di certificazione dell’impatto ambientale».

Ma per mantenere gli attuali livelli di produzione idroelettrica è necessario guardare soprattutto ai grandi impianti, che sono il 10% del totale ma producono il 90% dell’energia da questa fonte. Fino agli anni ‘60 l’idroelettrico soddisfaceva l’80% del fabbisogno nazionale di energia. Oggi l’età media degli impianti oltre i 10 MW è di 65 anni, e solo 11 sono infatti nati dopo il 1960. Ecco perché servono interventi di manutenzione e ammodernamento. «C’è molto da fare, sia per migliorarne l’efficienza che per renderli compatibili col raggiungimento del buono stato ecologico dei corsi d’acqua – sottolinea Zampetti – Vanno fatti i passaggi per i pesci, c’è bisogno di interventi per favorire il trasporto solido e si devono rivedere le norme sul deflusso minimo vitale, la quantità d’acqua rilasciata in alveo per mantenere la funzionalità del fiume». Sono essenziali interventi di svuotamento dei bacini dai sedimenti accumulati, sapendo che queste operazioni possono avere un fortissimo impatto. Il caso più eclatante è stato quello di Sauris, in Friuli: a febbraio 2013, in soli 20 giorni, un terzo del tempo previsto, Edipower, l’ente gestore della diga, ha rilasciato 56.000 metri cubi di fango nel torrente Lumiei e nel Tagliamento, distruggendoogni forma di vita (vedi Nuova Ecologia di aprile 2013, ndr). «È infine urgente ridurre gli effetti dell’hydropeaking», conclude Zampetti. Sono le centrali a pompaggio (costituite da due bacini, uno superiore e l’altro inferiore) ad essere caratterizzate da questa pratica, devastante per l’ecosistema fluviale. In un breve intervallo ci sono grandi variazioni della portata, picchi diurni e minimi notturni, per soddisfare la maggiore richiesta di elettricità del giorno. È come se ci fossero piene continue, seguite da un flusso minimo d’acqua, con uno stravolgimento della vita nel fiume. E si apre un’altra questione delicata, perché gli impianti a pompaggio, grazie alla capacità di stoccaggio dell’energia, sono un’opportunità per le rinnovabili. La sfida, ancora una volta, è trovare un equilibrio fra sviluppo delle fonti alternative e tutela dei fiumi.

di Elisa Cozzarini

(L’articolo è uscito su La Nuova Ecologia di ottobre 2013)


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